La rivoluzione digitale vista da molto vicino: Giusto Traina e Michele Nani


Per avviare una discussione sulla rivoluzione digitale nelle humanities abbiamo rivolto alcune domande ai nostri consiglieri scientifici. Le loro risposte saranno pubblicate in otto uscite. Ecco, come settima uscita, Giusto Traina e Michele Nani.

Indice delle uscite:

I) Agnese Accattoli e Davide Bondì.

II) Peter Burke ed Elisabetta Benigni.

III) Marco Filoni ed Erminia Irace.

IV) Lutz Klinkhammer e Matteo Melchiorre.

V) Donald Sassoon e Luca Peretti

VI) Jeffrey Schnapp e Paolo Varvaro

XIII

Giusto Traina

A quale generazione senti di appartenere?

Anagraficamente parlando sono un boomer, ma ho la presunzione di essere piuttosto un perennial: non nel senso tradizionale di “pianta perenne”, bensì nell’accezione formulata nel 2016 dall’imprenditrice tecnologica Gina Pell: “ever-blooming, relevant people of all ages who live in the present time, know what’s happening in the world, stay current with technology, and have friends of all ages”.

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

Nel 1987, grazie a una borsa di ricerca, ho acquistato il mio primo computer: un clone IBM, con il drive per i floppy disk da 8 pollici e lo schermo con i caratteri verdi su sfondo nero. Fra i trenta e i quarant’anni, la mia prima “rivoluzione digitale” è stata comune a quella di tanti altri operatori nel campo delle scienze umane: macchina per scrivere in soffitta e uso di Word processor sempre più raffinati. Più tardi, grazie a Internet, si è verificata una sorta di seconda rivoluzione: la progressiva immissione di dati in rete, che negli ultimi anni ha influito sempre più nel mio modus operandi.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Con il primo laptop, che si poteva portare in biblioteca, ho abbandonato progressivamente le schede cartacee. Mi rendo conto di aver contratto delle cattive abitudini: con l’abbandono del supporto cartaceo si perde senz’altro qualcosa. Paul Veyne (classe 1930) utilizza un metodo interessante: nel corso delle sue letture redige a mano dei “pizzini” che accumula gradualmente in un contenitore. Quando è pieno comincia a tirarli fuori, accende il computer e scrive. Io non potrei farlo: ma la mia grafia non è chiarissima e spesso non riesco a decifrare le vecchie schede che comunque conservo, anche se non proprio in ordine.

La disponibilità di testi in rete mi permette di lavorare quasi sempre a casa. Mi reco in biblioteca per cercare le pubblicazioni non disponibili in rete, o se devo consultare in simultanea diverse fonti. Detto questo, sono ben lieto di aver praticato a lungo il “vecchio” modo di lavorare, che mi permette di analizzare i dati in rete con un distacco critico non sempre riscontrabile negli attuali studenti di studi umanistici (OK Boomer: me lo dico da solo).

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Il passaggio al digitale (vedi sopra alla seconda domanda) ha senz’altro trasformato profondamente il mio modo di scrivere ed elaborare la ricerca. Ma qualche cambiamento tecnologico, anche se meno eclatante, si era verificato anche in precedenza. Ho imparato a scrivere con la penna Biro, ma pochi anni prima si usava ancora il calamaio. Quando mi sono iscritto all’Università, le fotocopiatrici erano già diventate delle presenze familiari, laddove i miei colleghi più anziani avevano dovuto praticare -per sé stessi o per il “barone” di turno- il lavoro dell’amanuense. E tuttavia ho fatto tesoro del monito di Umberto Eco in Come si fa una tesi di laurea (1977): “attenti all’alibi delle fotocopie!”. Eco – che a scuola scriveva con penna e calamaio – sapeva padroneggiare il computer ma ne conosceva bene i limiti: che poi sono i limiti di chi lo usa. Non a caso circola in rete questo aforisma a lui attribuito: “Il computer non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide; anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani di persone intelligenti.”

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Giusto Traina, professore di storia romana alla Sorbonne-Université, studia la storia politica, militare e la geografia storica del mondo tardoantico, con particolare interesse per le relazioni tra Oriente e Occidente. È un innovativo comunicatore, attento alla presenza della tradizione antica nel mondo attuale.

XIV

Michele Nani

A quale generazione senti di appartenere?

Non amo la categoria “generazione”. Sono cresciuto negli anni Settanta, godendo da bambino delle grandi libertà offerte da un quartiere periferico e popolare. Mi sono formato fra medie e liceo negli anni Ottanta, anni di restaurazione anche culturale, e poi nel decennio successivo ho frequentato l’università e poi il dottorato di ricerca, ma la politica, anche militante, è stata una fonte continua di stimoli intellettuali. Non saprei dire, quindi, a quante generazioni appartengo… certo mi sento un uomo del Novecento.

Come e quando è avvenuta, nella tua esperienza personale, la rivoluzione digitale?

Ho messo le mani su un computer molto presto, alle scuole medie: era uno ZX Spectrum. Lo usavo per giocare, ma ne ho anche studiato il manuale, affascinato dalla programmazione. Fra liceo e università ho avuto una formazione informatica grazie alla politica (veri e propri corsi introduttivi, passaggio dal ciclostile alla stampante per le matrici dei volantini, le prime BBS che si connettevano via cornetta telefonica). Verso la tesi di laurea ho comprato un computer fisso e ho cominciato a usarlo soprattutto per lo studio, schedare e scrivere, poi per fare la tesi in un’altra città mi sono dotato di un portatile, anche per andare in biblioteche e archivi e non dover più trascrivere maree di appunti. La mia prima connessione a Internet risale alla congiuntura dell’esplosione italiana, attorno alla metà degli anni Novanta: era una straordinaria opportunità, sia per la posta elettronica, che velocizzava lo scambio epistolare, sia per gli OPAC delle biblioteche, che semplificavano il reperimento dei libri che non si trovavano in città. Dopo un soggiorno parigino, nel corso del quale avevo scoperto le potenzialità del software “libero”, grazie all’aiuto di un tecnico informatico di dipartimento nel 2005 ho installato il mio primo SO Linux e da allora lavoro su Fedora, che gestisco autonomamente.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Certamente. Se devo fare schemi (programmi, scalette, progetti, riflessioni etc.) li faccio meglio e più volentieri a mano. Mi capita di prendere ancora appunti a mano quando leggo libri cartacei, ma poi le schede di lavoro sono files, non ho archivi cartacei, se non le residue schede redatte fino ai primi anni Novanta. Normalmente, cioè prima dell’epidemia, passavo almeno metà della giornata in archivio o biblioteca (e mi piacerebbe tornarci presto). Per ragioni di spazio e per resistere al consumismo cerco anche di comprare pochi libri di lavoro e di usare intensivamente le biblioteche: anche se spesso mi tocca spostarmi verso centri universitari maggiori per consultare la bibliografia non italiana e poi devo comprare online quello che non trovo (o reperirne in rete copie digitali).

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Il tema è complesso e non si può ridurre in poche righe. Soprattutto, esistono specificità spiccate e il lavoro di un biologo di laboratorio non è lo stesso di uno storico medievale o di un economista applicato. Il digitale è una risorsa preziosa per gli studi storici, penso ad esempio alla fatica di reperire i dati dei censimenti (nella mia città non c’erano che pochi volumi e mi toccava spostarmi altrove) e poi di copiarli: oggi l’Istat ha messo in rete le copie digitali, con tanto di ricercabilità interna (OCR). Ma il digitale, come tutta la tecnologia, è anche uno strumento di dominio, e questo vale anche per il lavoro culturale: nel senso dei rapporti sociali (sfruttamento e gerarchie), della distorsione cognitiva (lo stress da “accelerazione”, ben inquadrato da Hartmut Rosa), delle pratiche disciplinari (si pensi alla retorica sui “big data” e sulla stessa “digitalizzazione”, che cela la costituzione di “corpus” particolari di fonti la cui valenza è universalizzata). Non si tratta, naturalmente, di rifiutarne i benefici, ma di promuovere le condizioni istituzionali e sociali che esaltino le potenzialità emancipative del digitale, non i suoi usi regressivi.

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Michele Nani, storico dell’Istituto di studi sul mediterraneo di Napoli (CNR), lavora su una grande varietà di temi di storia sociale dall’età moderna in poi: dalle migrazioni alla demografia storica, dalla storia urbana a quella del lavoro.

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