La rivoluzione digitale vista da molto vicino: Marco Filoni ed Erminia Irace

Per avviare una discussione sulla rivoluzione digitale nelle humanities abbiamo rivolto alcune domande ai nostri consiglieri scientifici. Le loro risposte saranno pubblicate in otto uscite, da qui a metà ottobre. Ecco, come terza uscita, quelle di Marco Filoni ed Erminia Irace.

Indice delle uscite:

I) Agnese Accattoli e Davide Bondì.

II) Peter Burke ed Elisabetta Benigni.

V

Marco Filoni

A quale generazione senti di appartenere?

Trovo sempre difficile provare a “inquadrarmi”: sono nato a metà degli anni Settanta, e di certo appartengo a quella generazione cresciuta fra gli anni Ottanta e Novanta, avendo avuto però la fortuna di formarmi e di collaborare con quelli che un tempo avremmo chiamato “vecchi maestri”, da Livio Sichirollo a Carlo Ferdinando Russo a Dino Formaggio. E in questo senso il mio approccio al mondo degli studi è stato veicolato da un metodo classico. Allo stesso tempo la curiosità legata alla mia età ha fatto sì che fossi propenso all’utilizzo delle nuove tecnologie, facendo spesso da mediatore fra queste e i miei maestri.

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

Sin da studente universitario ho iniziato a usare le risorse digitali del tempo, facendo un largo impiego del computer (per i programmi di scrittura, inizialmente, poi man mano con internet e le nascenti banche dati, gli archivi online, ecc.)

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Credo che il “vecchio” modo di lavorare sia ben presente nella mia attività parallelamente a quello digitale: uso ancora compilare quaderni di appunti, ho archivi cartacei che utilizzo spesso – e questi materiali mi sono indispensabili nel lavoro.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

L’attuale organizzazione digitale del lavoro culturale e scientifico è tale che trovo difficile pensare di poterne fare a meno. È parte fondamentale del nostro lavoro: ricerche che nei decenni passati avrebbero previsto lunghi e dispendiosi viaggi, spostamenti fisici, lungo impiego di tempo per la ricerca materiale, velocità nello scambio di informazioni… oggi tutto questo, grazie alle risorse tecnologiche, è diventato “semplice” e veloce. Abbiamo fatto un balzo in avanti e godiamo grazie al digitale di una facilità di accesso oggi essenziale. Faccio perciò davvero molta fatica a immaginare una comunità scientifica e culturale che non utilizzi (traendone tutti i vantaggi) queste modalità.

Marco Filoni, storico della filosofia politica, direttore editoriale e saggista, affianca allo studio dei grandi pensatori una vivace attività di giornalismo culturale.

VI

Erminia Irace

A quale generazione senti di appartenere?

Alla generazione degli anni Ottanta del Novecento, decennio nel quale ho avuto vent’anni e mi sono formata all’Università. Analogamente ad altri coetanei/e nutrii fortemente la sensazione di far parte della generazione che incarnava il punto di arrivo dei progressi sociali, economici, culturali conosciuti dall’Italia e dall’Europa nei decenni successivi la seconda guerra mondiale. Eravamo nati al tempo del boom economico, cresciuti nella pace e nella democrazia, avevamo avuto un accesso di massa agli studi superiori; per le ragazze si prospettava un futuro pienamente “emancipato”, con fruttuose realizzazioni nel mondo delle professioni. Avvertivamo uno stretto vincolo con le generazioni che ci avevano preceduto, quelle dei genitori e dei nonni, e nel contempo sentivamo di essere più colti e preparati rispetto a loro. Nutrivamo grandi aspettative sul nostro avvenire. Insomma, credevamo di essere «la meglio gioventù».

A posteriori, formulo una valutazione tutt’affatto diversa. La mia è stata una generazione di transizione, come esemplifica la questione della rivoluzione digitale. Abbiamo vissuto in pieno la transizione dai tradizionali modelli del lavoro intellettuale agli attuali paradigmi della società digitale.

I ragazzi degli anni Ottanta, giudicati sempre troppo giovani e non abbastanza maturi dagli esponenti delle generazioni immediatamente precedenti, sono stati poi sopravanzati dalle generazioni successive, che hanno dovuto introiettare imperativi e modalità di comportamento del capitalismo neoliberale, quali la precarietà, l’ossessione valutativa finalizzata alla selezione “meritocratica”, la globalizzazione. Stretta in mezzo tra queste due coorti generazionali, la «meglio gioventù» degli anni Ottanta non è riuscita a diventare classe dirigente.

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

Ho redatto la tesi di laurea adoperando una macchina da scrivere elettronica, che rappresentava un netto progresso rispetto alle macchine da scrivere tradizionali. In seguito, ho familiarizzato con il computer sul finire degli anni Ottanta, in particolare durante il dottorato di ricerca. Mi ricordo bene questi computer pesantissimi (anche quando erano portatili) e dotati di sistemi informatici difficili da usare. Con il procedere degli anni, ho via via utilizzato le successive innovazioni tecnologiche, soprattutto internet, le mail, skype, lo smartphone, ecc.; però finora ho scelto di non usare i social. Il web, nei suoi vari risvolti, è stato fondamentale sotto ogni punto di vista, sia scientifico-intellettuale sia personale. Inoltre, ho ricavato grandissima soddisfazione dal fatto di poter utilizzare lo smartphone per scattare fotografie ai materiali di studio conservati negli archivi e nelle biblioteche.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Mi può capitare di scrivere a mano per annotare appunti riguardo a volumi o a carte d’archivio che sto leggendo oppure per mettere su carta delle idee.  Tuttavia, tali modalità tradizionali risultano per me meno funzionali rispetto a quelle rese possibili grazie al computer. Di fatto, essendo disordinata, non sempre mi ricordo dove ho riposto gli appunti manoscritti. Viceversa, il computer mi consente di archiviare nelle varie cartelle organizzate tematicamente materiali di vario tipo (foto, pdf, file word), così aiutandomi nella gestione ordinata dei materiali. Di conseguenza, il mio archivio di carta è ormai limitato alle raccolte di fotocopie cartacee di testi, che continuo a fare ogni tanto.

Vado abitualmente a leggere in biblioteca, anche se con l’andar degli anni ho purtroppo sempre meno tempo per farlo. Uso molto il prestito interbibliotecario e i servizi di document delivery, che rappresentano anch’essi una importante innovazione.

In ultimo, aggiungo che, in occasione di prove concorsuali svolte nel corso degli anni, le quali prevedevano la stesura di uno o più elaborati scritti a mano, ho avuto il forte timore di non farcela, opinione condivisa da altri colleghi con i quali mi sono confrontata. Abituata ormai a usare il taglia-incolla e a spostare interi blocchi di testo, insomma abituata a tutti i procedimenti consentiti dal computer, allorché mi sono trovata con la penna in mano davanti a una pagina bianca mi sono sentita un’analfabeta di ritorno, pensando di avere perduto la competenza acquisita a scuola relativa alla redazione di un testo manoscritto dotato di un livello medio di complessità. Peraltro, noto che la qualità della mia grafia è assai peggiorata col tempo; praticando poco la scrittura a mano, ho una grafia sempre più brutta qualitativamente, commetto molti errori ortografici (non mi succede se scrivo al computer), sono diventata lenta nel redigere un testo anche breve.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Sono entusiasta dell’organizzazione digitale del lavoro scientifico-culturale. Lo sviluppo del web ha dischiuso possibilità impensabili per le generazioni precedenti. Leggere libri e altri testi on line o in ebook ha ampliato enormemente le possibilità di lavorare su fonti e bibliografia internazionali nonché su materiali editi nei secoli passati e ora disponibili in versione digitale (poter leggere su InternetArchive i Diarii di Marin Sanudo o i Rerum di Muratori stando a casa mi ha quasi commossa). Accolgo con grandissimo favore l’attuale sviluppo dell’open access; rilevo tuttavia un notevole ritardo dell’editoria italiana nell’adeguarsi alle nuove prospettive del lavoro scientifico – penso tra l’altro alle riviste scientifiche, spesso ancora soltanto cartacee. Auspico la revisione della normativa che regolamenta il diritto d’autore. L’autore dovrebbe avere la possibilità, dopo un certo numero di anni dalla pubblicazione delle proprie monografie, contributi in volume o su rivista, di tornare in possesso dei pieni diritti sulle proprie opere dell’ingegno, potendo così metterle a disposizione sul web.

Sono consapevole che la rivoluzione digitale ha accresciuto la mole di materiali a disposizione e spesso provoca disorientamento, analogamente, per certi versi, a quanto si verificò nella prima età moderna, a seguito dello sviluppo della stampa a caratteri mobili. Tuttavia, mi ricordo bene quello che avveniva “prima”. Nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del XX secolo, la produzione di testi scientifici – parlo degli ambiti umanistici – aumentò moltissimo e il lavoro scientifico implicava ugualmente il reperimento di una grande quantità di bibliografia, dispersa in varie città e biblioteche. Forse si aveva meno contezza delle ricerche pubblicate in Australia, ma la sensazione di inseguire un panorama bibliografico ingente c’era lo stesso e senza le indubbie comodità consentite da internet.

Per quanto riguarda le attuali modalità del lavoro intellettuale, esse sono caratterizzate, a mio parere, innanzitutto da un elemento, ossia nell’accelerazione dei tempi di realizzazione. L’attuale organizzazione del lavoro scientifico-intellettuale e le istituzioni che lo innervano (ad esempio l’Anvur) premono affinché lo studioso pubblichi tanto e in tempi rapidi. Appare finita l’epoca in cui potevi dedicare interamente cinque anni di tempo per elaborare una monografia, sono tramontati i mesi in cui potevi dedicarti solo a studiare, anche leggendo opere distanti per contenuto dai tuoi argomenti di ricerca.

Sulla scorta delle possibilità informatiche e digitali, il sistema spinge alla produttività, restringendo il tempo della ricerca, dello studio, della riflessione, della stesura. Da ciò deriva, ad esempio, l’ipertrofia dell’offerta scientifica sul mercato editoriale, nonché la frequente tendenza a “spezzettare” una ricerca pubblicandone parti differenti in varie sedi editoriali (il cosiddetto salami slicing).

Tutto questo finisce per avere conseguenze sulle concrete pratiche del lavoro scientifico-intellettuale. Ad esempio, si tende a pubblicare più articoli e meno monografie oppure a inseguire argomenti “di moda” o fortemente attualizzanti nella speranza che possano essere più facilmente finanziati con fondi europei o anche soltanto regionali. I cambiamenti toccano da vicino anche la scelta e l’analisi delle fonti – mi riferisco al caso specifico delle discipline storiche. Faccio l’esempio dell’archivio Datini conservato a Prato. Se non completamente, almeno una grande parte del carteggio dell’azienda Datini è digitalizzata, operazione che ha consentito di ampliare il bacino di fruitori della documentazione. Ma non sono stati digitalizzati i registri contabili dell’azienda. Pertanto, gli studiosi tenderanno in prospettiva a concentrarsi sull’utilizzazione del carteggio anziché della documentazione contabile, per studiare la quale occorre recarsi nell’archivio di Prato e passarvi presumibilmente varie giornate di lavoro. Si tenga presente, tra l’altro, che per carenza di finanziamenti e mancato turn-over del personale, molti archivi hanno ridotto i propri orari di apertura o sono addirittura chiusi, una situazione che accresce le difficoltà di condurre taluni tipi di ricerche.

In questo contesto, ho l’impressione che la rivoluzione digitale potrebbe condurre all’incremento di ricerche storiche elaborate in maniera sostanziosa sulla base di documentazione reperibile on line, marginalizzando le fonti conservate nella sola versione cartacea (o pergamenacea), a privilegiare le fonti edite rispetto alle inedite e, in definitiva, a lavorare avendo introiettato l’imperativo della produttività, ossia conducendo le indagini con quello che si trova. In altri termini, ad analizzare un po’ di documenti, sufficienti per redigere un articolo di 30 mila/40 mila caratteri, anziché intraprendere lunghe campagne di scavo archivistico, a mixare documenti d’archivio con testi memorialistico-letterari e fonti iconografiche – entrambe tipologie spesso digitalizzate – al posto di concentrarsi in maniera esclusiva sull’esame di specifici fondi d’archivio. Ravviso elementi sia positivi sia critici in questa trasformazione. Mi torna però spesso alla mente quanto affermava Elisabeth Eisenstein (riprendendo le asserzioni di McLuhan) a proposito della stampa come “rivoluzione inavvertita”, cioè che l’evoluzione delle tecnologie riconfigura in profondità le forme e i contenuti della comunicazione culturale.

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Erminia Irace, storica dell’età moderna all’Università di Perugia, studia la storia culturale dei ceti dirigenti, italiana e regionale, le politiche della memoria e le istituzioni scientifiche.

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