La rivoluzione digitale vista da molto vicino: Jeffrey Schnapp e Paolo Varvaro

Per avviare una discussione sulla rivoluzione digitale nelle humanities abbiamo rivolto alcune domande ai nostri consiglieri scientifici. Le loro risposte saranno pubblicate in otto uscite. Ecco, come sesta uscita, Jeffrey Schnapp e Paolo Varvaro.


Indice delle uscite:

I) Agnese Accattoli e Davide Bondì.

II) Peter Burke ed Elisabetta Benigni.

III) Marco Filoni ed Erminia Irace.

IV) Lutz Klinkhammer e Matteo Melchiorre.

V) Donald Sassoon e Luca Peretti

XI

Jeffrey Schnapp

A quale generazione senti di appartenere?

Nato nel 1954, sarei tecnicamente un baby boomer, ma non mi sono trovato mai in definizioni generazionali, forse in gran parte perché sono uno spirito irrequieto che in ogni decennio si è mosso tra aree disciplinari, epoche, metodologie. Nella mia formazione, soprattutto come ispanista mi ricordo sempre dell’importanza attribuita dalla storiografia iberica alle generazioni (Generación del ’98, ecc.) Ma nel mio percorso personale le etichette di questo tipo non mi sono mai sembrate utili.

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

Mi ero già un po’ “sporcato le mani” negli anni ’70 in questo settore per curiosità; poi come dottorando a Stanford ero al centro del vortice e mi sono trovato molto bene dentro, malgrado il fatto che la mia formazione fosse di medievista. Alla metà del decennio, negli anni Ottanta, giravo già il mondo con un computer “portatile” che sembrava una valigia e che aveva bisogno di un suo passaporto per entrare in Italia. Per me il digitale ha sempre rappresentato un’avventura da seguire a fianco di metodologie e forme di sapere analogiche.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Non escludo nessun modus operandi, anche se lavoro soprattutto con banca dati e online. Detto questo, ho una particolare passione per gli archivi cartacei dove ho sempre una maggior sensazione di convivenza con il passato. Nelle banche dati si perde facilmente quella tattilità e fisicità che nel settore culturale in particolare è spesso portatore di significati non trascurabili. A parte qualche appunto, non scrivo mai a mano. Le biblioteche le frequento con molto piacere ma sempre più raramente.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Lo definirei nuovo proprio nel senso che spesso riesco a portare avanti delle ricerche che sarebbe praticamente impossibile realizzare con modalità di ricerca tradizionali: esempio, ho scritto un saggio sull’asfalto nell’immaginario culturale dell’inizio del Novecento lavorando con fonti diversissime – poesie di poetastri, pubblicità, pubblicazioni tecniche, romanzi, carteggi, ecc. ecc. Tutto trovato tramite motori di ricerca in rete. Poi quando si lavora sulla quantità, la rete (confesso, ho accesso a veramente tutto grazie a Harvard) mi sembra spesso imbattibile. Detto questo, ogni canale ha i suoi limiti. In certe ricerche la fisicità dell’oggetto resta sacra.

alt="Jeffrey Schnapp e la rivoluzione digitale vista da molto vicino"

Jeffrey Schnapp, professore di letterature comparate a Harvard, direttore del metaLAB(at)Harvard, condirettore del Berkman Klein Center for Internet and Society, designer e storico della cultura e dell’arte, svolge ricerche avanzate sul design dei saperi o knowledge design.

XII

Paolo Varvaro

A quale generazione senti di appartenere?

Appartengo alla generazione degli anni sessanta, quella del cosiddetto baby boom.

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

È iniziata nella seconda metà degli anni ottanta, quando ho cominciato a utilizzare il personal computer, e si è sviluppata da allora in avanti progressivamente in maniera sempre più massiccia.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Se per “vecchio modo di lavorare” si intende l’uso di carta e penna per la scrittura la risposta è negativa. Le mie modalità di lettura rimangono invece prevalentemente cartacee, limitando l’uso del digitale a letture da comodino o da treno.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Più che di organizzazione digitale del lavoro scientifico-culturale (che si conforma, almeno in ambito umanistico, secondo procedure e modalità prevalentemente soggettive) parlerei di risorse digitali a disposizione del lavoro scientifico-culturale. L’incremento di una mole di fonti conoscitive a disposizione di chiunque e senza sforzi di reperibilità impone l’uso di criteri selettivi che prima venivano individuati a priori, mentre adesso occorre individuarli a posteriori. Al netto del possibile inquinamento del dato storico, la molteplicità delle fonti rappresenta comunque un valore aggiunto per qualsiasi lavoro scientifico-culturale.

alt="Paolo Varvaro e la rivoluzione digitale nelle humanities"

Paolo Varvaro, storico dell’Università Federico II di Napoli, lavora sulla storia politica e culturale italiana del secondo Novecento. Si interessa molto al cinema, di cui è raffinato cultore.

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