La rivoluzione digitale vista da molto vicino: Andrea Ricciardi e Damiano Garofalo

Per avviare una discussione sulla rivoluzione digitale nelle humanities abbiamo rivolto alcune domande ai nostri consiglieri scientifici. Le loro risposte saranno pubblicate in otto uscite. Ecco, come ottava ed ultima uscita, Andrea Ricciardi e Damiano Garofalo.

Indice delle uscite:

I) Agnese Accattoli e Davide Bondì;

II) Peter Burke ed Elisabetta Benigni;

III) Marco Filoni ed Erminia Irace;

IV) Lutz Klinkhammer e Matteo Melchiorre;

V) Donald Sassoon e Luca Peretti;

VI) Jeffrey Schnapp e Paolo Varvaro;

VII) Giusto Traina e Michele Nani;

XV

Andrea Ricciardi

A quale generazione senti di appartenere?

Sono nato nel 1969 e, quindi, sono cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta. In realtà, paradossalmente, mi sento di appartenere un po’ agli anni Settanta (cioè quando ero bambino) e un po’ agli anni Sessanta (cioè quando non c’ero). Credo che questo derivi dal fatto che, per le mie passioni e i miei interessi (innanzitutto la musica, la politica, il cinema), gli anni ’80 siano una fase meno stimolante pur con le non poche eccezioni, concentrate però nella prima parte del decennio. Può darsi che i miei studi storici abbiano rafforzato questa idea di decadenza che sento tale dalla fine degli anni Ottanta, ma credo che la mia piccola “coscienza” dei tempi, delle cesure storiche, non sia poi così artificiale né costruita.  

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

Il primo computer risale al 1997-98, ho avuto pochi cellulari e solo il corona virus ha forse determinato una piccola rivoluzione. Non ho ancora uno smartphone, sono una delle due persone che conosco che ancora non ce l’ha e sento di dover cambiare passo. Non ho dubbi sull’utilità di certi strumenti. Però il mondo che si è generato, una sorta di “virtualizzazione” della realtà, mi dà molto fastidio. Sono totalmente distante dai social, mi pare che quasi tutti parlino di quasi tutto e che, grazie anche alla possibilità di accedere a molte informazioni, le competenze siano in crisi. Non mi pare un aspetto positivo dell’epoca che viviamo.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Sì, nei convegni ho sempre parlato avendo solo una traccia scritta a penna, ho parlato (e parlo) a braccio, con l’ovvia eccezione delle citazioni. Non potrei vivere senza computer ma, se devo fare uno schema e riflettere su un argomento, trovo più chiaro, rapido e comodo farlo su carta, utilizzando una penna. Lo stesso vale per gli appunti se mi trovo a un convegno dalla parte del pubblico. Non ho archivi di carta, vado in biblioteca e in archivio molto volentieri ma capisco che, se usata con intelligenza, la rete è una risorsa importante. Prima era impossibile controllare qualcosa con un clic, questo è indubbiamente molto comodo.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Penso che, per gli studi storici, come ho detto la rete abbia rappresentato nel complesso un vantaggio ma, se consideriamo le “riforme” universitarie che spingono a pubblicare molto, sia stata anche la certificazione della crisi della ricerca vera, quella incentrata sulle carte d’archivio (non tutte digitalizzate) e finalizzata a salvaguardare la problematicità del processo storico, non a semplificare (quando non a banalizzare) le dinamiche del passato appiattendolo sulle categorie del presente. Un presente che è ormai la dimensione temporale “sovrana”: il passato non è importante, quindi si fatica a immaginare che si possa incidere sul futuro. La velocità e l’attenzione spasmodica per il momento, connessi con i nuovi mezzi dell’era digitale, non si sono tradotti in un aumento della qualità media dei lavori, monografie e articoli. Alcuni nuovi settori della storia contemporanea, non slegati dall’urgenza di cui mi appare permeata la società, mi sembrano grotteschi e utili a creare cattedre e carriere più che ad approfondire la complessità della storia. Mi pare, infine, che fondazioni e istituzioni storiche siano per ragioni di sopravvivenza troppo attente al marketing e abbiano perso parte del loro fascino. Aggiungo che non necessariamente divulgare significa banalizzare. 

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Andrea Ricciardi, storico dell’Università di Milano, biografo e assiduo recensore di libri, lavora sulla storia italiana del secondo Novecento, specialmente sulle tradizioni liberalsocialiste e del Partito d’Azione.

XVI

Damiano Garofalo

A quale generazione senti di appartenere?

Credo di appartenere alla generazione nata a ridosso del crollo del muro, cresciuta negli anni novanta tra i colori sgargianti di Topolino e della televisione commerciale, che è diventata “grande” nell’estate del 2001, festeggiando il terzo scudetto della Roma e guardando in televisione le manifestazioni del G8 di Genova e gli attentati alle Torri gemelle.

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

Tra la fine degli anni novanta e gli inizi degli anni duemila: abituato a vedere montagne di film in VHS, quando mio padre mi regalò il DVD di Matrix rimasi scioccato dall’effetto delle immagini in alta definizione. E ho capito che il mondo stava cambiando.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Scrivo sempre a mano per prendere appunti in occasione di lezioni, workshop e seminari, che poi spesso ricopio digitalmente. Anche per leggere preferisco ancora utilizzare la carta, dunque libri e riviste, e ogni tanto stampo file in pdf per facilitarmi la lettura. Posso comunque dire che per lavorare utilizzo abitualmente una modalità “mista”.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Per quanto riguarda la ricerca, credo che ci siano risorse molto utili, ad esempio la facilità di poter attingere a testi in versione digitale prima difficilmente raggiungibili (soprattutto tramite l’introduzione dell’open access). Inoltre, la possibilità di connettersi con persone molto distanti e creare comunicazioni è senz’altro una risorsa scientifica. Da un punto di vista didattico, penso che ci sia la necessità di superare l’alienazione più o meno immediata generata da un mero trasferimento delle lezioni in presenza al dispositivo tecnologico. Penso comunque che questa fase debba invitarci a ripensare integralmente le modalità in cui prepariamo le lezioni, coinvolgiamo gli studenti e le studentesse, assegniamo esercitazioni e valutiamo la loro preparazione. E sono convinto che questi cambiamenti torneranno utili, in una modalità blended, anche al ritorno delle lezioni in presenza.

alt="Damiano Garofalo e la rivoluzione digitale nelle Humanities"

Damiano Garofalo, giovane studioso della Sapienza, è partito da studi di storia contemporanea, soprattutto storia sociale della televisione italiana, e ha poi allargato il suo campo d’azione alla storia del cinema e ai film studies.

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